Carla de Bellis, postfazione a DENTRO LE FONTI, Anterem 2006
Divisa in sette sezioni ognuna di tre poesie, la raccolta di Marinella Galletti ricerca la simmetria. Ma non tanto la simmetria come quella fonica distribuzione del ritmo cui lo strumento verbale tende naturalmente a disporsi, quanto, piuttosto, secondo il suo valore proprio e originario di qualità dello spazio.
La stessa disposizione grafica di ogni testo, ritagliato in una forma rettangolare e perciò chiuso entro un confine geometrico, lo struttura come un corpo nello spazio, proponendo uno schema visivo come un elemento essenziale della composizione. La dispersione temporale della parola viene, così, ingabbiata e costretta da un limite visivo, e la continuità effusiva e nei significati spesso radiante del ‘discorso’ verbale (il suo dinamico, deviante discurrere) tagliata con una sorta di violenza che spezza il senso per costruire una forma sensibile in ostensione. Lo spazio finito dei rettangoli più o meno estesi in cui si chiudono i testi sembra avere, nel risvolto della sua evidenza, un’allusiva funzione antagonista: proprio rispetto all’intrinseca circolarità del discorso poetico che ruota fondendo inizio e fine e assumendo lo sfuggente arcano dell’arcaico ouroboros circolare; e proprio perché questo è il più profondo segno della forma infinita (non finita né ferma: invisibile, inafferrabile e incoercibile) del tempo.
La raccolta, infatti, appare stringere un nodo, o una tensione, o un paradosso, dove i due termini che si toccano e insieme divergono sono appunto quelle due dimensioni su cui poggia l’umano esistere oscillando interrogativo tra finito e infinito: lo spazio e il tempo. Non dunque fattori solidali dell’identità riflessa dell’esistenza, ma forze in tensione, e la contesa prende corpo nella parola ‘costruttiva’ e nel dettato del senso che, in cerca della soluzione del dissidio, si ancorano allo spazio e alle sue forme e, insieme, cedono al tempo, accennando alla dissipazione del suo moto. Le varie sezioni ricercano “superfici”, “volumi”, “forme” e “figure”, “profili”, ma anche “polveri” dispersive ed effuse, e segni dell’impressione dinamica del tempo sullo spazio: “scoscese”, “tragitti”, “direzioni”.
La contesa discende nella divergenza delle qualità: la stasi e il moto. E, rispetto ai diversi oggetti della percezione sensibile, riguarda i corpi e i suoni, il visibile e il sonoro. La “stanza”, definito perimetro, prova a trattenere il “giro” di una musica sospinto dal tempo o il vortice, ugualmente mobile e circolare, delle foglie afferrate dalla forza dinamica del vento: per ‘contenerli’ e indurli alla propria stabile forma. Il tempo sostanzia il suono e il moto avviandoli a un dinamismo metamorfico, cui si oppone il profilo di un corpo. Il corpo è lo spazio e il visibile, dunque la forma: che come oggetto sfuggente la scrittura invoca ed insegue. Fragile e insidiata come quella del “fiore” dove si annida la forza dispersiva della mutazione. “Superfici”, “perimetri”, incalcolate “lunghezze” riposerebbero nella misura di uno “spazio”, se lo spazio non fosse sommosso dal “vento”. La forma del fiore è multipla (le “forme del fiore”), transeunte, mutevole, impressa dal tempo, e il fragile fiore assente si chiude in un luogo mentale: è contenuto, ‘compreso’ in uno spazio riflessivo, dove la ‘forma’ può, in astratta stabilità, consistere: “Comprendo le forme / corolle sul corpo sul / corpo di steli del fiore / Comprendo quel fiore”.
Nel gesto dell’“addio” (i due testi speculari e sottilmente opposti “Un addio a chi parte” e “Un addio a chi resta”) il tempo sospinge il moto della partenza, della dislocazione (il luogo, alla pressione degli eventi temporali, sfugge e si sottrae), e lo spazio si fa incerto: un riverbero colorato, un’irradiazione atmosferica, la fluida sostanza lacustre. La forza opposta al processo del flettersi e del ritrarsi è il ‘resistere’, che si proietta spazialmente come un più fermo ‘consistere’ in un luogo esistenziale diventando la condizione di un riconoscibile ‘esistere’; che tuttavia sfuma in una “voce” alterna: “… Ho voce / per dire chi sono ho / ancora flebile voce”, e, all’ opposto: “… Non ho / voce non ho per dire / chi sono…”; così come nell’alterno respiro della vita: “ … Resisto ed è / perché esisto respiro / tra i fiori di campo / nei luoghi del verde / e del vasto del lago”, e di nuovo, invertendo l’ordine dei termini: “Esisto nel fiore e nel / suono dell’acqua / nel vasto del lago. / Resisto”.
Medio tra spazio e tempo, il “corpo che cammina”: volume, “forma” materica, anch’esso adatto perciò alla stabilità dello spazio, e invece sospinto lungo un tragitto temporale. Forma allora non salda nello spazio finito, ma plasmantesi e cedevole negli ibridi luoghi in movimento prospettati dalla forza dinamica del suo “destino”. Così che l’ io/corpo è percepito come discontinuo e diviso tra l’“essere”, l’“apparire” e il cieco o labile “stare”.
É giusto nella sezione centrale fra le sette che con maggiore evidenza si espongono stretti e insieme estremi i fattori antagonisti, poiché il “tempo” si dispone in “figure” e manifesta una sua “forma” e lo “spazio” si piega a mostrarsi come “spazio di tempo”. Il tempo dissipatore dello spazio (dello stabile consistere, dell’identità dell’esistenza, della possibilità di forme permanenti) penetra nello spazio, lo stria di ombre e asimmetrie e ne assume le forme circolari (il”cono”, il “cerchio”, le “spire del tempo”), immagini della sua natura dinamica nella percezione di chi intende piegarlo alle qualità dello spazio ma lo sperimenta come ineluttabile e ignoto. La sua “forma” descrivibile sarà allora quella di un tracciato di “minimi punti della / linea del pensiero”, ognuno impercettibilmente fermo, come un dato dello spazio, ma nell’insieme in moto progressivo. Cecità e inerzia di un processo, di un procedere: ancóra la dinamica dell’ignoto.
Se può astrarsi l’idea di un tempo che penetra lo spazio, è possibile disegnare uno spazio che ‘contiene’ (ospita e insieme tiene a bada) il tempo, in una vicenda mobilmente ossimorica che crea una circolarità paradossale dove i due termini si scambiano le rispettive proprietà (“E confondo con / il tempo ciò che / è propriamente / dello spazio…”). Gli estremi (la partenza e l’arrivo) coincidenti come consistessero in uno stesso luogo, lo spazio che segue allo spazio in una successione temporale. Finché lo spazio diventa propriamente e non traslatamente “spazio di tempo”, e il contenitore appare invaso e informato esso stesso dal suo contenuto.
Ma il coesistere di stasi e moto, di permanenza e di aleatorietà è esperibile solo come un ibrido contraddittorio e diviso: “… Io resto. / In cammino…”, allo stesso modo dell’indicazione di un consistere nell’indistinto e nell’inafferrabile (“Nel cuore di città / Nel greve silenzio / di sera …/ … / Nel sereno eppure / nel vago languire / … / Nel sottile…”). Alla pressione di dinamici eventi la dimensione spaziale va disfacendosi, “polveri nell’aria”: “… Finché / l’aria si tinge del / colore del niente / e sia evaporato il / vuoto d’intorno”. Spazio disperso e diffuso in “gocce” di rugiada, in “pulviscoli”, in “visioni vibranti”; in nebulose, in spruzzi e schiume marine, in opacità atmosferiche. Spazio fluido e volatile di acqua e di aria: spazi multipli della natura, invasi dalla vita portatrice di tempo.
Ancora segni di lotta e tentati connubi nelle “opere di pietra”, immagine del solido e dello statico, e nei mobili “profili dell’acqua”. Comincia ad emergere l’oggetto chiuso nel cuore del nodo: la “forma”, non come stabile dato ma come risultato della fattura, dell’‘opera’. A marcare con i suoi segni fabbrili la “forma” ospite dello spazio è ancora una volta il tempo. L’artefice per cui la densità della materia occupante un suo luogo soggiace all’azione dell’“acqua che lava”, dell’“aria che asciuga”, e all’evolventesi germinazione del modellare. Ad esempio la forma di un “ponte” può farsi forma del tempo indicando un’origine e un mobile percorso, e legarsi all’acqua che in basso “scorre” e proprio col suo moto “sottolinea i profili”. Il pensiero astrae il disegno, il profilo del modellato, che traduce la materia in forma e ne fa oggetto di parola, ma anche nel luogo del pensiero l’idea formale agita la propria mobile matrice, alla cui natura è proprio la parola ad adeguarsi. Nello spazio/ forma è infatti viva l’“azione” della fattura mossa dal tempo, e la forma rende visibile il proprio intrinseco processo rivelando la “tras-formazione”, la “neo-formazione”: tutto ciò che si muove prima che la materia ‘si arrenda’ a una forma, continuando comunque a vibrarvi dentro.
Nell’ultima sezione della raccolta la ‘prospettiva’ esistenziale appare, in senso proprio, come il taglio spaziale del tempo, secondo un modo di guardare al tempo in termini di spazio: uno spazio ripido, tragitto e direzione, quindi ancora una volta esprimente la dinamica temporale di un cammino con la spinta ineluttabile a procedere. Il connubio dei termini dissimili favorisce l’ipotesi dell’alternativa opposta, del possibile “rovescio” dell’esperienza: del “vuoto” e del “volo” sciolti dalle due dimensioni. Diventa audacia e conoscenza, non perdita e languore, l’esperienza dell’interminato: il confine sconfinato, la “circonferenza” che diventa “giro” spinto dal tempo che ne confonde inizio e fine, il “territorio” dissipato dal “vortice” e attratto nell’indefinito del “volo”: “… Territorio. / Crederò di farne parte / anche se sulla spinta / in aria di molti vortici / ho cavalcato a lungo / come nella pratica del / tragitto di volo di un / interminabile stormo”.
Infine lo spazio si connota eticamente ed è spazio interiore minacciato, dove la contraddizione paradossale si sposta sullo strumento e il nascosto oggetto della poesia: la parola che, esprimendo una dimensione insidiata e offesa, articola la propria sottrazione e si professa “tacita” (“… Parlerò la / lingua convessa tacita / del monte…”), annodandosi al silenzio, motore della sua tensione e perenne desiderio.
La parola enuncia ora il proprio nodo paradossale, dopo aver saggiato lungo la raccolta altri legami oppositivi: la stabilità dello spazio e la dissipazione del tempo; la forma, visibile identità dello spazio e proiezione mentale, e la trasformante fattura che vi imprime il segno del tempo; l’arte, che ricerca il dominio di stabili forme, e la natura piegata a mutarsi. Infine quel disporsi spaziale e visivo della parola in conclusa geometria che al ‘giro’ del discorso poetico e al materializzarsi del tempo nel ritmo circolare del verso oppone una sorta di prosa spezzata, un discorso disarticolato in segmenti. Ma il dettato in sintassi e in immagini poetico trasforma tuttavia la recisione e l’intermittenza in ritmo che, non sedato dal ‘giro’ del verso, cadenza un affanno, una singultante non coercibile angoscia.