Alfonso Lentini, testoprefazione a EVA E ADAMO (2008)
SCEMPIATI TASSELLI DI UN UNIVERSO IN COSTRUZIONE -Mi scrivi: “La terra che attraversiamo è in parte raccolta negli specchi della nostra casa. Noi siamo questi specchi, che vanno consumandosi nel viaggio intrapreso. Siamo la loro lucentezza e il loro lento offuscamento”. (Flavio Ermini, Il moto apparente del sole)
Tagliando idealmente a metà in senso verticale il corpo di un essere umano, notiamo che (in base a quella che viene comunemente definita “simmetria bilaterale”) esso è formato di due parti specularmente identiche.
C’è dunque nel corpo (e forse anche nella natura) degli umani una sottile armatura specchiante, inesauribile fonte di mille diramazioni mitologiche, iconologiche, religiose, filosofiche, fra cui spicca un’allusione al mito dell’Ermafrodito, cioè alla coesistenza del due nell’uno; e alle due nature, femminile e maschile, che solo se fuse insieme conducono a una qualche completezza, per quanto problematica. C’è nei corpi (e forse nella natura umana) questo taglio verticale, questa ferita primigenia: un’interfaccia speculare che ognuno porta celata dentro di sé. Una cerniera che separa, si direbbe. Ma anche una tessitura che “rispecchia” e per questo tende a gettare ponti, riannodare. Come quella dell’orizzonte, è una linea che distacca ma nello stesso tempo congiunge terra e cielo.
Le opere visuali, ma anche le parole di Marinella Galletti scorrono all’interno di questa intercapedine, germinano come steli giganti da questa terra di nessuno. Vi si muovono dentro con sensualità, delicatezza e circospezione, sembrano camminarvi in punta di piedi, a volte con la leggerezza dell’ironia, altre volte con la densità dell’iperbole.
Questo cammino parte da una ricerca sull’identità e la differenza: “percezione dell’esperienza d’amore” nelle sue più disparate epifanie. Un’indagine serrata, che Galletti sviluppa a partire dalle difformità e dalle somiglianze fra i sessi. Di conseguenza la sua, per quanto leggera, è un’arte marcatamente sessuale. Di una sessualità che muove dalle nature minerali e vegetali, da petali carnosi e splendenti come gemme, e si spinge, simile a una lenta marea che progressivamente dilata il contorno del mare, sino alla popolazione degli umani.
Sbirciando fra questi cangianti oggetti poetici può capitare di perdersi. Come un fiore che sbocciando dirama i suoi petali, Eva e Adamo si smembrano in una selva di elementi metonimici. Ci si imbatte in «unità morfologiche e fonetiche » fatte di visi, mani, labbra, occhi, “monoangeli” persino, o “corolle giganti”, macro-cellule che si estroflettono nello spazio come se fossero pàtine di luce proiettate da una lanterna magica. Luoghi, anfratti e curvature del cosmo ne vengono pervasi e può capitare che queste carezzevoli proiezioni evochino geometrie non-euclidee dove il piano (come viene comunemente inteso) è sostituito da superfici arbitrarie, fluttuanti e irriducibili alle abituali norme percettive.
Sono opere portatrici di una consapevole operazione estetica: l’oggettualizzazione di un’idea, la trasposizione sul piano materiale di una definita concezione dell’arte. Un’idea antica, se vogliamo, ma che si rafforza e prende corpo nell’ambito delle avanguardie novecentesche (del Cubismo, in modo più evidente): l’idea dell’opera come oggetto polivalente e prismatico, edificata su un procedimento di scomposizione. Solo che qui la scomposizione è materialmente portata a compimento, e per questo più che concettuale l’operazione ha valenza oggettuale. Siamo insomma messi di fronte a strutture dalla reale conformazione prismatica, dotate di spigoli e curvature che possiamo toccare con mano. Scempiati tasselli di un universo in costruzione.
L’esito è una sontuosa e paradossale disarticolazione, quasi uno squartamento del corpo umano ridotto a pezzi, ognuno dei quali però sembra tendere verso l’altro, come attratto da una rete di invisibili calamite, in misteriosa tensione cosmica.
Le opere (ed anche le parole) di Marinella Galletti si pongono perciò come frammenti alla ricerca di un’unità perduta. I due poli sono il maschile e il femminile, Eva e Adamo, che sembrano muovere verso una ricomposizione, ma attraverso tragitti schizofrenici e irrisolti: «Pensavo a lui. Prima non c’era. Non visibile, non per questo assente, viveva unito alla mia origine un pensiero perfetto. Un ripetuto frantumarsi e rifarsi di idee convergenti al presente al mio quotidiano agire. Un’ idea ricorrente».
Sul piano della scrittura perciò l’opera di Galletti si configura anch’essa in scansione modulare. Testi brevi e vaganti, asciutte e lunari “micrologie”, si svolgono nella pagina (assumendo una disposizione di forma quadrangolare che ricorda i poligoni delle opere visive) e danno corpo, come nella più alta tradizione della poesia amorosa, a un canzoniere (o piccolo libro d’ore) che racconta una storia filiforme, appena accennata: una “lei” e un “lui”, un’Eva e un Adamo qualsiasi, «sotto a un cielo acceso» si cercano e si trovano in un luogo qualsiasi del cosmo («Io e lui nella stanza, entrando e uscendo dal terrazzo più volte»...). L’amore si rivela come forza aggregante che avvolge e travolge ogni forma di vita: «Due belve stupende si accoppiano. Il loro pelo è lucido e nero. / Due uccelli si librano nell’aria, i loro becchi si intrecciano nelle piume e trovano un ramo per copulare. / Sia la natura nell’atto di assalire».
Sul piano della scrittura come su quello della ricerca visiva, Galletti insomma ci racconta la “percezione” di un’esperienza di natura arcana e sensuale. Così nelle opere visive l’artista focalizza frequentemente alcuni particolari del corpo umano e nel farlo li ingigantisce, mettendo in evidenza con procedimento iperbolico la loro prepotente peculiarità, quella di essere legati alla sfera dei sensi: sono grandi nasi, grandi bocche, grandi lingue, grandi orecchie, grandi mani…
L’uomo di oggi (alienato e disumanizzato dalla meccanizzazione) è ridotto – come dice Pirandello – «a pezzetti e bocconcini». Ma nell’universo artistico di Marinella Galletti queste schegge di corpi non si sono del tutto arrese: come nei miti platonici continuano a carezzarsi, annusarsi, leccarsi. Si riconoscono, si cercano, si amano. Si rispecchiano uno nell’altro. La dimensione che si impone è dunque quella di un erotismo estenuato, scomposto e problematico, ma che di sicuro lascia ampi squarci di speranza: «L’amore visita il mio tempo presente. / L’amore supera ogni apprendimento».